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Canto I - Riassunto

Il Tempo:
notte dal 7 (giovedì santo) all'8 aprile (venerdì santo); poi mattino dell'8 aprile del 1300.
Il Luogo:
nella selva oscura e poi nella piaggia deserta.
I Personaggi:
Dante si imbatte in tre belve: una lonza, un leone e una lupa. Incontra poi Virgilio, che sarà la sua guida nel viaggio oltremondano.

 In Sintesi:
1-12 Dante di Smarrisce in una Selva Oscura.
Dante si ritrova, a metà del cammino della vita, in una selva oscura. L'aspetto orribile della selva selvaggia, irta, intricata di pruni, lo spaventa ancora al solo pensarvi. Nè il poeta si è accorto di esservi entrato, perchè il suo animo era assonnato e intorpidito.

13-30 Il Colle Illuminato dal Sole
Il poeta, giunto al limite della selva, scorge un colle, la cui cima è illuminata dal sole. Come il naufrago che, uscito dalle acqua pericolose, si volge al mare da cui è riuscito a salvarsi. Dante volge lo sguardo verso la selva rimasta alle sue spalle e, dopo un breve riposo per rinfrancare le forze, riprende il cammino verso l'erta del colle.

31-60 Apparzione di tre Fiere: Dante Retrocede Verso la Selva
Proprio mentre il poeta inizia la salita gli si para dinanzi una lonza leggera e veloce che gli sbarra il cammino. Il momento favorevole dell'ora e della stagione (la mattina dell'equinozio di primavera) sembra ridare momentaneamente al poeta la speranza di raggiungere la sommità del colle, speranza che svanisce all'apparizione di un leone che avanza ruggendo minaccioso e di una lupa magra e affannata. Questa anzi, muovendo contro Dante, lo ricaccia a poco a poco nella selva oscura.

61-99 Apparizione di Virgilio
Mentre retrocede verso la selva, Dante vede una figura umana e le si rivolge chiedendo aiuto, anche se non sa distinguere se si tratti di un'ombra o di un uomo vivo. L'ombra risponde di esser stata un un tempo uomo (e di essere dunque l'anima di un defunto) poi si rivela come Virgilio, e invita Dante a salire il dilettoso monte, principiodi ogni completa felicità. All'udir ciò, Dante risponde con umiltà esaltando Virgilio come onore e lume degli altri poeti, come suo autore prediletto e maestro, e in nome della sua fedeltà di discepolo lo prega di aiutarlo e di liberarlo dal pericolo della lupa. Il pianto accompagna la disperata richiesta e Virgilio, rincuorandolo, esorta Dante a incamminarsi per una via diversa perchè la lupa è così pericolosa da impedire non solo il cammino, ma da uccidere chi si trova sulla sua strada.




Canto I

  Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.

  Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

  Tant'è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

  Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
tant'era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

  Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,

  guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.

  Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.

  E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva
si volge a l'acqua perigliosa e guata,

  così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

  Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

  Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

  e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.

  Temp'era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino

  mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

  l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.

  Questi parea che contra me venisse
con la test'alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.

  Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

  questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.

  E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista;

  tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.

  Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

  Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

  Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.

  Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

  Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilión fu combusto.

  Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

  «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos'io lui con vergognosa fronte.

  «O de li altri poeti onore e lume
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

  Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.

  Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

  «A te convien tenere altro viaggio»,
rispuose poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio:

  ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

  e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

  Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.

  Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

  Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

  Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde 'nvidia prima dipartilla.

  Ond'io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno,

  ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;

  e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.

  A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;

  ché quello imperador che là sù regna,
perch'i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna.

  In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!».

  E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch'io fugga questo male e peggio,

  che tu mi meni là dov'or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».

  Allor si mosse, e io li tenni dietro.

Canto I - Introduzione

Per opinione unanime dei critici i canti introduttivi della Divina Commedia, mentre ci darebbero la chiave interpretativa di tutto il poema, non riuscirebbero a raggiungere una persuasiva individuazione di personaggi, caratteri, situazioni. Il giudizio del Croce sul primo canto può rendere ragione di questa valutazione negativa: " Specialmente il primo canto dà qualche impressione di stento: con quel "mezzo del cammino" della vita, in cui ci si ritrova in una selva che non è selva, e si vede un colle che non è un colle, e si mira un sole che non è il sole, e s’incontrano tre fiere, che sono e non sono fiere, e la più minaccevole di esse è magra per le brame che la divorano e, non si sa come, " a vivere grame molte genti". Tanta severità non è certo fatta per invogliare alla lettura chi intenda accostarsi al << poema sacro " per la via additata dal suo autore, affrontando cioè per prima cosa l’intrico di simboli che ne adombrano il mistico significato. Una più cordiale adesione alla parola del Poeta, pur nel suo laborioso maturare, gioverebbe senza altro meglio allo scopo.L’ostacolo maggiore per noi, nel seguire Dante agli esordi del suo capolavoro, è senza dubbio costituito dall’allegoria, questo schema interpretativo che è stato argutamente definito da uno storico la << pianta parassita nella serra della tarda antichità " e che ritroviamo in tutte le manifestazioni dell’arte del medioevo. La nostra mentalità positiva, tutta volta al concreto e all’"effettuale", ben difficilmente trova di che nutrirsi nel miracoloso tessuto di rispondenze che la mente medievale scorgeva dappertutto nell’universo. Perduto il senso del "sacro", stentiamo a scorgere nelle cose la traccia di un Creatore, la misura di un ordine sottratto al fluttuare degli eventi. Ai tempi di Dante non era così. Il linguaggio dei simboli era di dominio comune, l’uomo era avido di "interpretazioni" che colmassero l’infinita distanza che lo separava da Dio. Ma anche a noi l’allegoria non può non apparire legittimata in pieno, là dove crea Un linguaggio autonomo, non vincolato alla lettura " in chiave " che essa propone. Se cioè essa non esaurisce le sue risorse espressive nella delimitazione del proprio ambito di concetti, ma anzi, come quasi sempre in Dante, conferisce alla parola, coll’immetterla in una prospettiva infinita, una dimensione espressiva che altrimenti non avrebbe, allora dobbiamo riconoscerle il diritto a una considerazione non prevenuta sul piano della poesia. Forse la poesia dei canti introduttivi della Commedia va cercata nel tono particolarissimo che l’uso dell’allegoria conferisce alla parola di Dante: tono severo, assorto, meditativo in cui rivive, riportato entro una prospettiva medievale, l’alta ispirazione dell’Antico Testamento." Il verso con cui si apre l’Inferno, e insieme la Divina Commedia, emerge da una memoria tutta percorsa da echi biblici e profetici. Il testo di Isaia " ego dixi in dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi " (XXXVIII, 10), direttamente citato dalle parole di Dante, e il testo del Salmo LXXXIX, 10 "dies annorum nostrorum sePtuaginta anni ", da esse indirettamente alluso, evocano un’atmosfera solenne in cui il discorso acquista come una dignità liturgica, il sigillo sacro di un annunzio misterioso." (Getto)Osservazioni analoghe si possono estendere al I canto nel suo complesso.Tra i momenti lirici di più agevole lettura spiccano, in questo canto, il drammatico paragone del naufrago, la paradisiaca apparizione della luce sulla cima del colle, la dolente elegia di Virgilio consapevole di essere per sempre bandito dal premio dei beati (oh felice colui cu’ivi elegge!). Dal canto suo la rappresentazione delle fiere, pur rispondendo a criteri allegorici, è tutt’altro che fredda e classificatoria. Non possiamo vedere in esse soltanto " tre motivi da miniatura medievale e da bestiario".Ancora il Getto, svolgendo alcuni spunti chiarificatori del Momigliano, per il quale nella presentazione delle tre fiere "si rivela la capacità di Dante di cogliere le linee significative di un essere vivente, di darne, per così dire, la definizione pittorica", precisa: "Dante non ci presenta degli animali rigidi, imbalsamati, ma al contrario degli animali in movimento, vivi... La lonza è tutta balzante leggerezza e morbida agilità e sferzante eleganza... Il leone, a sua volta, ha qualcosa di statuario, un’imponenza monumentale dà cui si sprigiona però una forza compressa, una fierezza energica... La lupa, infine, assume un profilo nervoso, sfinito e teso a un tempo... Essa è definita come la bestia sanza pace: un tratto che, di nuovo, coglie l’intimità e insieme il gesto dell’animale, il suo istinto e il suo agire, l’insaziabile cercare". E’ vero che le tre fiere sono nate nella fantasia del Poeta non da una presa diretta di contatto con la natura, ma da una sentita rielaborazione della Sacra Scrittura (Geremia, lamentando la corruzione del regno di Giuda, dice: "Ecco perché il leone della foresta li uccide, il lupo del deserto li sbrana, il leopardo è in agguato davanti alle loro città"; V, 6). Ma - conclude il Getto - "l’operazione poetica svolta da Dante" consiste qui in una "ricerca che è simultaneamente intellettuale ed estetica", così che, "come nel linguaggio biblico, in genere, e soprattutto in quello profetico, si determina una specie di continuo spostamento dal primo piano dell’immagine a quello più lontano e segreto del pensiero". Si trattava "da un lato di umanizzare, di rendere passionali, viziose le tre fiere, e d’altro lato di dare alle sue idee di peccati un carattere bestiale, sottolineandone l’aspetto disumano, ferino". La coordinazione tra figura e figurato non è pertanto riuscita arbitraria sul piano della poesia.

Canto XII - Introduzione

In questo canto l’attenzione del Poeta non si ferma sullo spettacolo del castigo infernale (l’accenno al fiume di sangue non va oltre la menzione generica - riviera del sangue, bollor vermiglio, bulicame - alla quale fa eco il caricaturale bolliti) o sulla caratterizzazione di un dannato: protagonisti ne sono i centauri, custodi del primo girone del cerchio dei violenti. Ad essi si contrappone, sul piano simbolico, una figura anch’essa per metà umana e per metà ferina la quale, tuttavia, nella rielaborazione in senso etico e relìgioso dei miti antichi operata dal Poeta, ne rappresenta la più diretta antitesi: il Minotauro. Posto inutilmente (giace inerte, all’improvviso la sua ira lo colpisce - se stesso morse - prima ancora che Virgilio gli parli) a guardia dell’ingresso al cerchio, il Minotauro appare animato da una vitalità innaturale, come in un presagio di morte. Le parole che Virgilio gli rivolge sono di scherno feroce: apparentemente intese a placarlo, mirano in realtà a fargli perdere ogni capacità di discernimento, sono il colpo mortale che la ragione infligge alla bestialità di null’altro armata che del proprio furore. Nell’immagine del toro saltellante il crepuscolo della coscienza è ritratto con attenzione divertita, senza alcun indugio nel descrittivo: come sempre in Dante, attraverso la notazione realistica si fa strada il giudizio morale. La figura del Minotauro è infatti, non meno di quella degli altri custodi infernali, anche un’simbolo: rappresenta la matta bestialità, il progressivo ottenebrarsi della chiarezza razionale nel caos degli istinti. La brutale, scena del macello si inquadra - trovando in essa il suo compimento ideale, la suprema definizione del suo significato - in una cornice mitologica. Fin dal suo primo apparire Dante riconosce, in quella massa pesantemente adagiata, l’infamia di Creti, quasi l’infamia per antonomasia. L’atteggiamento esteriore del mostro, la sua animalità, torpida ma non rassegnata, ne denunciano, senza possibilità di equivoci, l’esatto collocamento nella gerarchia degli esseri e dei valori. Cosi, anche in questa figura che esprime, come tante altre della Commedia, un’interpretazione cristiana dei miti del paganesimo, passato remotissimo e attualità della cosa vista, tradizione letteraria (Ovidio) ed esperienza diretta si compongono in un rapporto tanto più intimo e persuasivo, quanto più rispondente ad un intento di esemplificazione e di ammaestramento. Mentre il Minotauro rappresenta il degradarsi dell’umano nell’animalità, i centauri simboleggiano il processo inverso, l’armonico dominio della volontà cosciente sulle passioni, il contemperamento della forza con la saggezza. Chirone è ricordato come il maestro di Achille (e nel verbo nodrì, come ha osservato il Mazzoni, sono affettuosamente riassunte le paterne sollecitudini di quell’insegnamento), Nesso prende il posto di Virgilio nell’illustrare a Dante la topografia fisica e morale dei girone e, se all’inizio il poeta latino gli ricorda, in tono di rimprovero, le funeste conseguenze della sua impazienza, la presentazione che ne fa poi al discepolo appare elogiativa. Un verso come che morì per la bella Deianira potrebbe inserirsi senza stonare nell’enumerazione, fatta da Virgilio (Inferno V, 61-69), dei generosi che perdettero la vita per amore. Come nelle favole, le qualità della donna amata si compendiano in questo endecasillabo nel solo attributo bella. Basta questa sola qualità perché l’uomo, animo nobile, eroe, quasi gioisca di offrire attraverso il proprio sacrificio una prova che si adegui all’infinità del suo amore. Ma il centauro, a differenza dei morti per amore del quinto canto, seppe predisporre, morendo, lo strumento della propria vendetta (il clima dell’evocazione delle donne antiche e dei cavalieri prepara la tragedia; i centauri si inquadrano invece in una prestigiosa aura di leggenda). L’attenzione di Dante è rivolta soprattutto a Chirone, ritratto al centro di un gruppo scultoreo, in cui sembra quasi rivivere il ritmo luminoso e solenne dei rilievi di Olìmpia. Il grande centauro riflette, il suo sguardo si astrae da ogni oggetto circostante, il suo pensiero si ripiega su se stesso: al petto si mira. Quindi, prima dì parlare, si pettina la grande barba, con la cocca di una freccia. Nei centauri non troviamo traccia di quell’automatismo feroce, di quella spaventosa cecità spirituale che contraddistinguono, gli altri custodi infernali. Anche Caronte, la più umana di queste figure, appare demoniaco se paragonato ai saettatori del settimo cerchio. Questi, "più solenni che selvaggi, fanno pensare alla primitiva umanità eroica. del Vico" (Momigliano), a quel mitico periodo agli albori della storia in cui l’uomo, emergendo a poco a poco, dalla barbarie, ma di questa conservando inalterata la schiettezza, seppe creare le prime forme del vivere civile. Il Minotauro è invece l’espressione di una fase anteriore, nella cronologia dei miti: quella in cui l’uomo, non ancora soggetto alle leggi, credeva di poter impunemente sfidare la volontà degli dei e l’ordine della natura. Nell’ultima parte del canto, occupata da un elenco di tiranni e di predoni, la storia, si sostituisce, come fonte d’insegnamento morale, alla leggenda. La figura dei centauro Nesso è qui quella di un pedagogo diligente e impersonale. Ma le sue parole riflettono, in due punti almeno del suo discorso, un’intensa partecipazione. Là dove delineano, fortemente rilevate in campo rosso (il sangue da essi versato), le capigliature di Ezzelino da Romano e di Obizzo d’Este, non un cenno è fatto alle azioni nefande di questi tiranni. Solo un nero e un giallo s’imprimono nella nostra mente, accostati con quel gusto del colore pieno, compatto, prezioso, che si ritrova nella pittura romanica. Poi, dopo alcuni versi, alto sul fluire del Tamigi, isolato nella maestà della morte, il cuore di un innocente assassinato in una chiesa.

Canto XII - Riassunto

Il Tempo:
9 aprile (sabato santo) del 1300
Il Luogo:
il settimo cerchio, primo girone, costituito da un fossato pieno di sangue (il Flegetonte).
La Pena e i Peccatori:
i violenti contro gli altri (nelle persone e nelle cose) sono condannati a restare immersi nel sangue, visto che ne sparsero tanto (contrappasso per analogia).

In Sintesi:
1-30. Il Minotauro.
I due poeti giungono alla frana che conduce al cerchio successivo e che Dante paragona a uno scoscendimento presso Trento; qui vedono disteso sulle rocce il Minotauro che, al loro apparire, s'infuria mordendosi. Le parole sarcastiche di Virgilio lo fanno ancor più imbestialire, e mentre quello saltella goffamente i due poeti passano il varco e scendono al cerchio sottostante.

31-45. Origine delle "ruine" infernali.
Dante riprende il cammino pensieroso e Virgilio, che gli legge nella mente, spiega la ragione di quella "ruina". Essa non esisteva quando Virgilio era disceso nel basso Inferno la prima volta, scongiurato dalla maga Eritone. Alla morte di Cristo tutto l'Inferno tremò così forte che sembrò vera la dottrina del ritorno degli elementi al caos primigenio. Per quel terremoto qui e in altre parti dell'Inferno si ebbero frane e scoscendimenti.

46-75. Il Flegetonte e i Centauri.
Virgilio invita Dante a guardare avanti dove scorre il Flegetonte, fiume di sangue bollente in cui sono immersi i violenti contro il prossimo. Dante guarda e vede sulla riva del fiume correre i centauri armati di saette. Questi si fermano nello scorgere i due poeti scendere dalla ripa e incoccano le frecce mentre uno di loro li interpella ordinando di fermarsi. Virgilio lo placa dichiarandosi pronto a dare spiegazione a Chirone; poi rivolgendosi a Dante gli indica di Nesso, il centauro che ha parlato, Chirone e Folo.

76-99. Incontro con Chirone.
Mentre Virgilio e Dante continuano a scendere, Chirone nota che sotto ai piedi del secondo i sassi si muovono, cosa che non avviene sotto il passo dei morti, e lo fa notare agli altri due centauri. Virgilio spiega che Dante è vivo ed egli, per volere celeste, lo deve guidare attraverso l'Inferno. Chiede poi a Chirone un centauro che li guidi fino al guado e porti Dante sulla groppa per attraversare il fiume. Chirone assegna a Nesso tale compito.


100-139. Nesso mostra a Dante alcuni violenti.
Guidati da Nesso i due poeti proseguono il viaggio lungo la riva del Flegetonte. Il centauro indica prima i tiranni che sono immersi nel fiume fino al ciglio, nominando Alessandro, Dionisio, Ezzelino e Obizzo d'Este, e altri spiriti che sono immersi fino alla gola, fra cui Guido di Montfort. Poi, a mano a mano che si avanza, diminuisce la profondità del fiume e i dannati sono immersi solo fino al petto, altri solo con i piedi: quivi è il guado e Nesso spiega che dall'altra parte la profondità del fiume cresce via via fino a raggiungere il punto più alto dove sono i tiranni tra i quali ricorda Attila, Pirro e Sesto e i due ladroni Rinieri da Corneto e Rinieri de' Pazzi. Passato il fiume, Nesso si gira e torna indietro.

Canto XII - Parafrasi

Il luogo in cui giungemmo per scendere lungo il dirupo era scosceso e, per di più a causa di ciò che in esso si trovava (il Minotauro), tale, che ogni sguardo lo avrebbe evitato. Quale è la frana che a valle di Trento colpì in una delle sue rive l’Adige, o a causa di un terremoto o per l’erosione del terreno sottostante, in modo che il pendio dalla vetta della montagna, dalla quale la frana si staccò, alla pianura è così inclinato, da offrire una via di discesa a chi si trovasse in alto, tale era la discesa di quel burrone; e nella parte superiore della Costa franata giaceva distesa la vergogna, dei Cretesi che fu concepita nella finta vacca; e quando ci vide, morse se stesso, come colui che è sopraffatto internamente dall’ira. Il mio saggio maestro gli si rivolse gridando: " Pensi forse di trovarti in presenza del signore d’Atene, che sulla terra ti diede la morte? Allontanati, bestia: costui non giunge infatti guidato da tua sorella, ma si reca a vedere i vostri tormenti". Come fa il toro che si scioglie dai nodi che lo legano nell’istante in cui, mortalmente colpito, non è più capace di camminare, ma barcolla qua e là, tale io vidi diventare il Minotauro; e il sagace Virgilio gridò: " Corri al punto di discesa; è bene che tu scenda, mentre è infuriato ". Così ci avviammo attraverso l’ammasso di quelle pietre, che si muovevano spesso sotto i miei piedi per l’insolito peso. Procedevo meditabondo; e Virgilio disse: "Tu pensi forse a questa frana custodita da quella belva irosa che ora ho reso inoffensiva. Voglio dunque che tu sappia che la volta precedente, allorché scesi nella parte inferiore dell’inferno, questo pendio non era ancora franato. Ma, se non mi inganno, senza dubbio poco prima della venuta di colui che tolse a Satana il glorioso bottino del limbo, il profondo abisso immondo tremò in ogni sua parte tanto, che io credetti che l’ universo fosse preso da quell’amore, a causa del quale alcuni ritengono che più di una volta il mondo sia ritornato nel caos; e allora questa antica rupe subì, in questo luogo e altrove (nella bolgia degli ipocriti; Inferno XXI, 106-108), tale franamento. Ma guarda attentamente in basso, poiché si avvicina il fiume di sangue bollente in cui è immerso chiunque rechi danno ad altri con la violenza ". O irragionevole avidità e ira sconsiderata, che a tal punto ci stimoli nella breve vita terrena, e poi in tanto dolore ci immergi in quella eterna! Vidi un largo fossato circolare, in quanto cinge tutto il piano (del settimo cerchio), secondo quello che aveva detto il mio accompagnatore; e tra la base del dirupo e questo fossato, dei centauri correvano raccolti in gruppo, armati di frecce, come solevano fare sulla terra quando andavano a caccia. Vedendoci scendere, ciascuno si fermò, e tre di loro si separarono dalla schiera con archi e frecce scelte in precedenza; e uno gridò da lontano: " Verso quale pena vi dirigete voi che scendete il pendio ? Ditelo dal punto in cui vi trovate; altrimenti tendo l’arco ". Virgilio disse: " Risponderemo a Chirone quando vi saremo vicini: con tuo danno la tua volontà fu sempre così impulsiva ". Poi mi toccò, e disse: "Quello è Nesso, che perdette la vita per amore della bella Deianira e vendicò da sé la propria morte. E quello che sta In mezzo, e tiene lo sguardo abbassato, è il grande Chirone, che educò Achille; l’altro è Folo, che fu così iroso. Girano a migliaia intorno al fossato, colpendo con frecce qualsiasi dannato si trae fuori dal sangue più di quanto il suo peccato gli diede in sorte ". Ci avvicinammo a quegli animali ve1oci: Chirone prese una freccia, e con la cocca trasse indietro la barba sulle mascelle. Quando la grande bocca fu completamente libera disse ai compagni: "Vi siete accorti che colui che sta di dietro è un essere vivente ? E Virgilio, che già gli era di fronte, e arrivava all’altezza del suo petto, là dove le due nature (di uomo e di cavallo) si uniscono, rispose: " E’ veramente vivo, e a lui, a lui solo, devo mostrare l’inferno: ci spinge a ciò la necessità, non il piacere. Dal cielo si mosse qualcuno che mi affidò questo straordinario incarico: non è un ladrone, né io sono l’anima di un ladro. Ma in nome di quel potere divino, ad opera del quale percorro un cammino cosi impervio, dacci uno dei tuoi, a cui possiamo stare vicini, e che ci indichi il punto dove il fiume può essere attraversato e trasporti costui sulla sua groppa, poiché egli non è uno spirito che possa volare ". Chirone si volse a destra, e parlò a Nesso: "Volgiti indietro, e fa loro da guida, e fa scansare qualunque altra schiera s’imbatta in voi". Ci avviammo dunque insieme col sicuro accompagnatore lungo la sponda del sangue bollente, nel quale i dannatì emettevano grida laceranti. Vidi una rnoltitudine immersa fino agli occhi; e Nesso spiegò: "Essi sono tiranni che uccisero e depredarono. Qui si sconta il male arrecato agli altri senza pietà; qui si trovano Alessandro, e il crudele Dionisio, che fu causa alla Sicilia di anni dolorosi. E quella fronte coperta di così neri capelli, è (la fronte) di Ezzelino; quello biondo è invece Obizzo d’Este, il quale davvero fu ucciso in terra dal figlio snaturato ". Allora mi rivolsi a Virgilio, ed egli disse: " Nesso sia ora la tua guida, io verrò secondo ". Poco più oltre il Centauro si arrestò presso una moltitudine che appariva immersa in quel bollore fino alla gola. Ci indicò un’ombra isolata in un angolo e disse: " Quel dannato trafisse in chiesa il cuore che è ancora venerato a Londra ". Guido, conte di Montfort, vicario in Toscana di Carlo I d'Angiò, pugnalò nel 1272, in una chiesa di Viterbo, Arrigo, cugìno del re d'Inghilterra Edoardo I, che gli aveva ucciso il padre. Sulla tomba di Arrigo, posta sul ponte del Tamigi a Londra, una statua dorata, secondo quanto riferisce un antico commentatore, Benvenuto da ImoIa, reggeva un calice contenente il suo cuore imbalsamato. Vidi in seguito una moltitudine che teneva fuori del fiume il capo ed anche tutto il petto; e riconobbi parecchi di costoro. A questo modo il livello del sangue andava sempre più diminuendo, fino a bruciare soltanto i piedi; qui guadammo il fossato. " Così come vedi che il liquido bollente si abbassa progressivamente da questa parte " disse il Centauro, " voglio che tu sappia che dalla parte opposta il suo alveo diventa sempre più profondo, finché si ricongiunge al punto dove è giusto che i tiranni espiino. Da quest’altra parte la giustizia di Dio punisce Attila che sulla terra fu strumento di dolore e Pirro e Sesto; e per l’eternità spreme le lagrime, che fa sgorgare con il supplizio del sangue bollente, a Rinieri da Corneto, a Rinieri dei Pazzi, che resero così pericolose le strade. " Poi si voltò indietro, e riattraversò il pantano.

Canto XII

  Era lo loco ov'a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco,
tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.

  Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,

  che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse:

  cotal di quel burrato era la scesa;
e 'n su la punta de la rotta lacca
l'infamia di Creti era distesa

  che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l'ira dentro fiacca.

  Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?

  Pàrtiti, bestia: ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».

  Qual è quel toro che si slaccia in quella
c'ha ricevuto già 'l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,

  vid'io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco:
mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale».

  Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.

  Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina ch'è guardata
da quell'ira bestial ch'i' ora spensi.

  Or vo' che sappi che l'altra fiata
ch'i' discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.

  Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,

  da tutte parti l'alta valle feda
tremò sì, ch'i' pensai che l'universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda

  più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia
qui e altrove, tal fece riverso.

  Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia».

  Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l'etterna poi sì mal c'immolle!

  Io vidi un'ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto 'l piano abbraccia,
secondo ch'avea detto la mia scorta;

  e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.

  Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;

  e l'un gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l'arco tiro».

  Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».

  Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira
e fé di sé la vendetta elli stesso.

  E quel di mezzo, ch'al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell'altro è Folo, che fu sì pien d'ira.

  Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».

  Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.

  Quando s'ebbe scoperta la gran bocca,
disse a' compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch'el tocca?

  Così non soglion far li piè d'i morti».
E 'l mio buon duca, che già li er'al petto,
dove le due nature son consorti,

  rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità 'l ci 'nduce, e non diletto.

  Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest'officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.

  Ma per quella virtù per cu' io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,

  e che ne mostri là dove si guada
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l'aere vada».

  Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s'altra schiera v'intoppa».

  Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.

  Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni
che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.

  Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dionisio fero,
che fé Cicilia aver dolorosi anni.

  E quella fronte c'ha 'l pel così nero,
è Azzolino; e quell'altro ch'è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero

  fu spento dal figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».

  Poco più oltre il centauro s'affisse
sovr'una gente che 'nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.

  Mostrocci un'ombra da l'un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola».

  Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto 'l casso;
e di costoro assai riconobb'io.

  Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.

  «Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse 'l centauro, «voglio che tu credi

  che da quest'altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.

  La divina giustizia di qua punge
quell'Attila che fu flagello in terra
e Pirro e Sesto; e in etterno munge

  le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».

  Poi si rivolse, e ripassossi 'l guazzo.

Canto I - Riassunto

 Il Tempo:
notte dal 7 (giovedì santo) all'8 aprile (venerdì santo); poi mattino dell'8 aprile del 1300.
Il Luogo:
nella selva oscura e poi nella piaggia deserta.
I Personaggi:
Dante si imbatte in tre belve: una lonza, un leone e una lupa. Incontra poi Virgilio, che sarà la sua guida  nel viaggio oltremondano.

In Sintesi:

1-12. Dante si smarrisce in una selva oscura.
Dante si ritrova, a metà del cammino della sua vita, in una selva oscura. L'aspetto orribile della selva selvaggia, irta, intricata di pruni, lo spaventa ancora al solo pensarvi. Nè il poeta si è accorto di esservi entrato, perchè il suo animo era assonnato e intorpidito.

13-30. Il colle illuminato dal sole.
Il poeta, giunto al limite della selva, scorge un colle, la cui cima è illuminata dal sole. Come il naufrago che, uscito dalle acque pericolose, si volge al mare da cui è riuscito a salvarsi, Dante volge lo sguardo verso la selva rimasta alle sue spalle e, dopo un breve riposo per rinfrancare le forze, riprende il cammino verso l'erta del colle.

31-60. Apparizione di tre fiere: Dante retrocede verso la selva.
Proprio mentre il poeta inizia la salita gli si para dinnanzi una lonza leggera e veloce che gli sbarra il cammino. Il momento favorevole dell'ora e della stagione (la mattina dell'equinozio di primavera) sembra ridare momentaneamente al poeta la speranza di raggiungere la sommità del colle, speranza che svanisce all'apparizione di un leone che avanza ruggendo minaccioso e di una lupa magra e affannata. Questi anzi, muovendo contro Dante, lo ricaccia a poco a poco nella selva oscura.

Canto I - Parafrasi

A metà della nostra esistenza terrena mi trovai a vagare in una buia foresta, nella condizione di chi ha smarrito la via del retto vivere. Mi è assai difficile descrivere questa selva inospitale, irta di ostacoli e ardua da attraversare, che al solo pensarci risuscita in me lo sgomento. Il tormento che provoca è di poco inferiore all’angoscia della morte; ma per giungere a parlare del bene incontratovi, dirò prima delle altre cose che in essa ho vedute. Ma, giunto alle pendici di un colle, dove terminava la selva che mi aveva trafitto il cuore di angoscia, volsi lo sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già illuminati dai raggi dell’astro (il sole) che guida secondo verità ciascuno nel suo cammino. Allora la paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così compassionevole affanno, mi aveva attanagliato nel profondo del cuore, placò in parte la sua violenza, E con l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con affannoso respiro la terraferma, si volge ad abbracciare con lo sguardo crucciato l’immensità degli elementi scatenati, mi volsi indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la impervia plaga da cui nessun essere vivente riuscì mai a venir fuori. Dopo aver riposato un poco il corpo stanco, ripresi ( senza interruzioni) la mia salita lungo il pendio desolato, in modo che il piede fermo era sempre più basso rispetto a quello in movimento. Ma, giunto quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco apparirmi una lince snella e veloce, dal manto chiazzato: essa non si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario ostacolava a tal punto il mio procedere, che più di una volta fui sul punto di tornarmene indietro. Era l’alba e il sole saliva in cielo nella costellazione dell’Ariete, con la quale si era trovato in congiunzione allorché Iddio creò, imprimendo loro il movimento, gli astri; per questa ragione erano per me auspicio di vittoria su quella belva dalla pelle screziata l’ora mattutina e la primavera (la dolce stagione: il sole è nel segno dell’Ariete appunto in questa stagione), non tanto tuttavia da far si ch’io non restassi nuovamente atterrito all’apparizione di un leone. Questo sembrava venirmi incontro rabbioso e famelico, col capo eretto, e diffondeva intorno a sé tanto spavento che l’aria stessa sembrava rabbrividirne. E (oltre al leone) una lupa, nella cui macilenta figura covavano brame insaziabili, e che già molte genti aveva reso infelici, mi oppresse di tale sbigottimento con il suo aspetto, che disperai di raggiungere la cima del colle. E come colui che, avido di guadagni, quando arriva il momento che gli fa perdere ciò che ha acquistato, si cruccia e si addolora nel profondo del suo animo, tale mi rese la insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me, mi respingeva nuovamente verso la selva, là dove il sole non penetra con i suoi raggi. Mentre stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso colui che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava ormai incapace di far intendere la sua voce. Quando lo scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: " Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in carne ed ossa !" Mi rispose: " Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei genitori furono entrambi lombardi, originari di Mantova. Vidi la luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché troppo tardi (per esserne conosciuto e apprezzato), e vissi a Roma al tempo di Ottaviano Augusto, principe di gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di divinità non vere e ingannevoli. Fui poeta, e celebrai in versi le imprese di quel paladino della giustizia (Enea), figlio di Anchise, che venne da Troia ( a stabilirsi in Italia ), dopo che la superba città fu incendiata. Ma tu perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle? Perché non ascendi invece il gaudioso colle, dispensatore e origine di ogni perfetta letizia? " "Sei proprio tu " risposi reverente ed umile " il grande Virgilio, sorgente copiosa d’inesauribile poesia? O tu che onori e illumini chiunque coltivi l’arte del poetare, mi acquistino la tua benevolenza l’assidua consuetudine e il grande amore che mi ha spinto ad accostarmi alla tua opera. Tu sei lo scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità indiscussa; sei l’unico dal quale ho appreso il bello scrivere che mi ha arrecato fama. Guarda la lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il tuo aiuto, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare di paura in ogni fibra." Virgilio, reso pietoso dalle mie lagrime: "Tu devi, se vuoi uscire da questo luogo impervio, seguire una altra strada: perché la belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il cammino a chiunque in essa si imbatte, perseguitandolo senza tregua sino ad ucciderlo; e tanto perversa e malvagia è la sua indole, che nulla può placarne le smodate cupidigie e, invece di saziarla. il cibo ne accresce gli appetiti. Numerosi sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero è destinato a crescere, fino alla venuta ( in veste di liberatore) di un Veltro, che la ucciderà crudelmente. Né il potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma soltanto le qualità della mente e dell’animo, e la sua nascita avverrà tra poveri panni. Sarà la salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si immolarono in combattimento la giovinetta Camilla, Eurialo e Turno e Niso. Egli darà la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a tornarsene nella sua sede naturale, l’inferno, da dove Lucifero, odio primigenio, la fece uscire. Perciò penso e giudico che, per la tua salvezza, tu mi debba seguire, e io sarà tua guida, e ti condurrò da qui nel luogo della pena eterna, dove udrai i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di coloro che, fin dalla più remota antichità, soffrono per l’inappellabile dannazione; e vedrai coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei tormenti purificatori del purgatorio, certi di salire prima o poi al cielo. Se tu vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti accompagnerà: con lei ti lascerò al momento del mio distacco; poiché Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa penetrare nella sua città (tra i beati) senza essere stato in terra sottomesso alla sua legge ( cioè cristiano ). Dio è in ogni luogo sovrano onnipotente e ha nel cielo la sua sede; qui si trovano la sua città e l’eccelso trono: felice colui che Dio sceglie perché risieda in cielo" Ed io: " Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto conoscere, per la mia salvezza temporale ed eterna di condurmi là dove ora hai detto, tanto che io possa vedere la porta del paradiso e le anime che dici immerse in così grandi pene" Virgilio sì incamminò, e io lo seguii.

Canto I

 Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.

  Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

  Tant'è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

  Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
tant'era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

  Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,

  guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.

  Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.

  E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva
si volge a l'acqua perigliosa e guata,

  così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

  Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

  Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

  e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.

  Temp'era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino

  mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

  l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.

  Questi parea che contra me venisse
con la test'alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.

  Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

  questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.

  E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista;

  tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.

  Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

  Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

  Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.

  Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

  Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilión fu combusto.

  Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

  «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos'io lui con vergognosa fronte.

  «O de li altri poeti onore e lume
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

  Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.

  Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

  «A te convien tenere altro viaggio»,
rispuose poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio:

  ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

  e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

  Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.

  Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

  Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

  Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde 'nvidia prima dipartilla.

  Ond'io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno,

  ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;

  e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.

  A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;

  ché quello imperador che là sù regna,
perch'i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna.

  In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!».

  E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch'io fugga questo male e peggio,

  che tu mi meni là dov'or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».

  Allor si mosse, e io li tenni dietro.